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Un paradigma del potere

Un paradigma del potere

L’inizio autunno del 2019 vede un governo italiano impegnato nel far quadrare conti e conticini vari per allestire il rituale documento economico finanziario (DEF) al fine di modulare al meglio l’esercizio del potere delle classi dominanti, cui garantire risorse, a spese di quelle sfruttate, cui togliere risorse. Un lavoro impegnativo, che vede la necessità di depredare un terreno socio-economico già impoverito mantenendo un adeguato consenso popolare. Specie in questo frangente politico dove, dopo i rimpasti estivi, si è di fronte ad un esecutivo che si vorrebbe più di progressista, sia per l’avvicendamento PD-Lega, sia per la flebile presenza di un solo ministro nominato – Speranza – proveniente dai banchi della sinistra italiana, con l’incarico spinoso di presiedere il dicastero della Salute Pubblica. Speranza ha già lanciato la sua offerta in termini di cancellazione del super-ticket e di costruzione di una sanità compartecipativa in misura proporzionale al reddito dell’assistito. Il Presidente del Consiglio Conte lo ha frenato nelle sue elucubrazioni “socialisteggianti”. Il risultato finale di questa apparente schermaglia potrà influire in misura molto relativa su di un miglioramento della sanità pubblica in Italia; se non addirittura peggiorarla, dato che potrà imporre contributi ulteriori, che alla fine pagheranno sempre i lavoratori dipendenti ed i pensionati mentre il popolo dell’evasione fiscale se ne tirerà fuori come sempre.

Sul piano della salute in Italia gli elementi che devono essere messi in rilievo, in questa fase politica, riguardano un’analisi che sappia evidenziare il contesto socio-economico attuale, il panorama sindacale e politico – specie sul fronte delle lotte e dell’opposizione di classe – e la rete dei servizi offerta con la sua ricaduta sulla salute collettiva, specie dei più bisognosi. I dati del Rapporto dell’Annuario Statistico del SSN mostrano la chiusura di 91 ospedali nel quinquennio 2012–2017, di cui circa un terzo è pubblico, come i tre quarti degli ambulatori specialistici su un totale di 401. Al tempo stesso la sanità residenziale, semiresidenziale e riabilitativa vede aumentata la portata dell’offerta, in particolare a favore delle strutture private. Il fronteggiamento pubblico–privato mostra un deciso spostamento verso il privato accreditato: poco meno della metà (48,2%) nelle strutture ospedaliere e numeri decisamente maggioritari sul piano semiresidenziale (68,6%), riabilitativo (77,9%) e residenziale (82,3%). In pratica i posti letto che si trovavano in molte Medicine Generali di tanti piccoli ospedali pubblici, chiusi in questi ultimi trent’anni, sono diventati letti per cronici in strutture gestite da soggetti privati. Un fatto che nella sostanza mostra un vero e proprio cambio di identità della sanità italiana, dove al pubblico si lasciano campi residuali e costosi: le acuzie (in medicina, il momento in cui un fenomeno morboso si manifesta in maniera più acuta), l’emergenza, la prevenzione (quando prevista e praticata) e tutto quello che del territorio non è stato ancora saccheggiato. Tutto quello che necessita di oltre una decina di giorni di ricovero diventa cronico e quindi riposizionato sul mercato. Dopo i farmaci da banco e la discutibile abitudine indotta all’autocura, arrivano anche i posti letto da banco? Nella sostanza la risposta è affermativa, in una schematizzazione estrema in cui si può inserire tranquillamente la strutturazione di una sanità futura che dovrà poggiarsi su tre gambe: pubblico (residuale), privato da mercato e privato da copertura assicurativa o mutualistica, a seconda delle scelte che si svilupperanno.

Una prospettiva fosca ed apocalittica? In parte è solo la rappresentazione di una realtà in continuo cambiamento che vede le garanzie sociali e i diritti conquistati progressivamente erosi, in tema di welfare sanitario, di istruzione, previdenza, sicurezza, etc. Ma al di là di qualsiasi considerazione, a parlare ancora una volta sono i numeri e quelli conosciuti mostrano come il tasso di sopravvivenza e di benessere dei paesi occidentali con un welfare universalistico, abbiano valori più alti di quelli di tre quarti del pianeta. In una lettura ampia, che deve necessariamente interpretare la realtà in tutte le sue interconnessioni dove, in particolare in campo sanitario, l’allungamento della vita media, non può essere solo imputato alla presenza maggiore di medici o infermieri, anche se, al contrario, la presenza minore di professionisti sanitari è scientificamente provata essere causa di una riduzione dell’aspettativa di vita. A tutto questo si aggiungono quelli che sono chiamati determinanti della salute e della malattia: lavoro, abitazione, accesso ai servizi, istruzione, reddito, accesso all’acqua, alimentazione, etc. Gli elementi insomma che caratterizzano in maniera abbastanza rigida e traumatica la stratificazione di una società, quello che una volta si chiamava la divisione classista della società capitalista.

Se l’Italia si trova al 4° posto a livello mondiale per aspettativa di vita (dopo Giappone, Svizzera, Spagna) è l’effetto in particolare dell’onda lunga del benessere diffuso dopo il boom economico che ha potuto garantire ad una larga fetta di popolazione una protezione sanitaria importante. Gli ottantenni di oggi in pratica sono i quarantenni del 1978, dell’anno in cui entrò in attività il SSN, pubblico, gratuito ed universalista. In un contesto in cui si registravano ancora le ricadute positive dell’economia, con tutele sociali molto ampie ed una prospettiva di accesso al pensionamento decisamente dai tempi più “umani” rispetto alle riforme e agli scaloni previdenziali degli ultimi anni. Va ricordato che non tutto è per sempre e gli effetti negativi sia della crisi del 2008, sia di un’onda lunga iperliberista che dagli anni ’90 sta ristrutturando profondamente la società, si iniziano a sentire. Nel 2015 si è registrato un aumento della mortalità della popolazione italiana di 54.000 decessi in più (9,1%) rispetto all’anno precedente. Numeri che non si vedevano dal 1944. In merito va ricordato come sia un dato acclarato che il tasso di mortalità è inversamente proporzionale al livello di istruzione e strettamente legato alla distribuzione geografica, con valori più alti al Sud che nelle regioni settentrionali. Per capirsi, il tasso standard di mortalità del 2017 vede i seguenti dati: Italia (8,4), Nord-Est (7,9), Trento (7,2), Regioni del Sud (9,1), Campania (10). Ulteriori approfondimenti dei dati socio-economici possono solo offrire un quadro di depauperamento progressivo delle classi più povere, dei lavoratori, dei settori più fragili della società, strettamente correlato alle distruttive politiche lavorative, sanitarie, dell’istruzione e previdenziali in atto. Un quadro che necessariamente deve essere letto in termini politici e sindacali, dove la ristrutturazione della sanità in Italia ed ancor più del welfare sono delle ottime chiavi interpretative della capacità del movimento di classe di poter conquistare e difendere diritti, o, più realisticamente, al contrario, di perdere garanzie sociali senza essere in grado di costruire opposizioni di alcun tipo.

Se il welfare nasce, in parte, dal compromesso socialdemocratico posto in atto nel ’900 in Occidente, l’ambiente sanitario è uno di quelli in cui si sviluppa una minore vivacità politica e sindacale in rapporto ad altri contesti di lavoro quali cantieristica, metalmeccanica, edilizia, agricoltura, etc. Gli anni ’70 del XX secolo vedono però una inedita conflittualità negli ospedali italiani, con lo sviluppo di un movimento di lotta detto “degli ospedalieri”, in cui rientravano in maniera indefinita le varie categorie professionali presenti nel contesto sanitario. Un movimento che portò importanti contributi sul piano della conquista dei diritti, dell’allargamento delle garanzie sindacali, di una modernizzazione dei rapporti e delle relazioni fra le diverse figure sanitarie, in un ambiente, quello sanitario, fra i più gerarchici esistenti. Si sviluppò anche un importante dibattito che vide la cura strettamente correlata con i determinanti sociali, rivendicando in questo interventi in ottica globale e non mirati unicamente a questa o quella prestazione sanitaria. “La salute si difende in primo luogo in fabbrica”, era uno degli slogan del tempo che sintetizza pregevolmente la dimensione rivendicativa sul piano politico. Il resto è storia, quella che vede il montare del liberismo thatcheriano e reaganiano degli anni ’80, fino alla transizione del decennio successivo ed all’erosione progressiva dei diritti di cui si diceva.

Giordano

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